Nicaragua, cosa ci insegna la rivoluzione sandinista quarantatré anni dopo

Le ferite inflitte dall'imperialismo USA all'America Latina sanguinano ancora.

Fino al 19 luglio 1979 il Nicaragua era dominato da un dittatore sanguinario, Anastasio Somoza, figlio di un altro dittatore sanguinario che si chiamava esattamente come lui. Aveva studiato negli Stati Uniti all’Accademia di West Point e, più che presidente, fu capo della guardia nazionale, corpo armato creato, strutturato e addestrato dagli Stati Uniti per portare avanti la più feroce repressione, stroncando nel sangue ogni timido tentativo o anche semplice idea di un’autonomia nazionale del paese. 

Sotto la famiglia Somoza, insomma, il Nicaragua rappresentò il caso forse più classico ed evidente di colonia statunitense, brutalmente dominata da una gang di sicari per conto del potere imperiale stabilito a Washington, sottomettendo con la violenza una popolazione ridotta alla povertà più estrema e a un’esistenza assolutamente indegna di essere vissuta. Franklin Delano Roosevelt aveva soprannominato Somoza senior “our son of a bitch”.

Dopo la rivoluzione sandinista, iniziata il 19 luglio del 1979, gli USA organizzarono e armarono i gruppi controrivoluzionari (la cosiddetta contra) portando avanti un sabotaggio spietato, fatto di massacri di civili e di ogni genere di attacchi indiscriminati, e giungendo a intervenire direttamente in alcuni casi, come quando decisero di minare i porti nicaraguensi per impedire ogni collegamento marittimo tra il paese reprobo e il resto del mondo.

Nel 1986 la Corte internazionale di giustizia, con una sua storica sentenza, decretò che gli Stati Uniti avevano violato varie fondamentali norme del diritto internazionale, tra le quali quella più fondamentale di tutte relativa all’autodeterminazione dei popoli. Una sentenza che contribuì molto all’evoluzione del diritto internazionale ma che non venne mai eseguita, dato che avrebbe dovuto occuparsene il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, bloccato dal veto statunitense.

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