Raramente ho trovato in un autore, come, invece, avevo scoperto in Pierre Magnan (1922-2012), tanta passione e tanta precisione in riferimento alla vita sociale, al costume, ai poveracci, ai notabili, alle persone avide, temi, mi sembra, sempre di attualità. Nel suo caso per quasi duecento anni di storia francese, poi. E, in materia, mi urge riferire subito quanto mi disse tanti anni fa un mio ex-compagno di scuola, di madre transalpina, circa il fatto che i francesi avessero sempre amato tenersi i risparmi (l’espressione puntuale erano “le monete d’oro”) sotto i materassi.
La prima volta in cui lessi Magnan, restando magari perplesso sulla trama, non potei fare a meno di ritrovarmi per intero in una mia personale idea geo-fisica di Francia, quella dei viali di platani, delle piazzette alberate e di certe locande d’entroterra, per intenderci. E’ uno dei miei autori preferiti. Per un certo periodo, almeno, sono stato in buona compagnia, se é vero che Camilleri in un racconto della serie “gli esordi di Montalbano” fa dire al suo personaggio che forse era il caso, nonostante vari impegni, di continuare la lettura del libro di Magnan, che aveva appena iniziato. Né ha fatto certo difetto a questo autore essere stato amico e discepolo di Jean Giono, suo conterraneo del dipartimento oggi denominato Alpi dell’Alta Provenza (con Digne capoluogo).
Sussistono varie testimonianze della pregressa civiltà materiale disseminate nei libri di questo autore, quali divise di portalettere modellate su quelle dei soldati di Napoleone, divise dei ferrovieri, tele cerate, cappellini antiquati, calendari delle Poste dalla ricca iconografia, tamburi sgargianti, polveri (di insetti) fortemente afrodisiache, attrezzi inconsueti (dei falegnami, dei maniscalchi, dei carbonai, dei tartufai, degli apicoltori), macchinari complicati tutti in legno per i molini ad acqua, tipiche costruzioni agricole provenzali dalle circoscritte destinazioni d’uso, arredamenti maestosi e severi degli studi dei notari, destinati a sfidare le guerre ed i decenni.
Su tutte le storie incombe la natura (e, qui, mi vado a ripetere) con il vento impetuoso che scende dalle montagne; cime (la Lure in primo luogo) per arrivare alle quali si passa dalle coltivazioni intensive specializzate alle boscaglie e a qualche foresta, per rinvenire pianori erbosi non di rado sprofondanti in doline (e rupi e sassi e burroni); cappelle e chiesette di campagna; reperti archeologici romani; piante rare, piante endemiche, piante officinali, profusione di fiori a primavera; maestosi castelli diroccati; lo scrosciare, talora pauroso, specie nella brutta stagione, delle acque della Durance e della Bleone e di tanti torrenti, spesso con accompagnamento di diluvi di pioggia e di spaventosi fulmini; ed anche il sole e la neve, certamente. E tanti giardini, tanti orti, tanti alberi che, più che coltivati, sembrano ormai crescere da soli e sfidare le intemperie, perché messi a dimora da qualche antenato più avveduto, il tutto a completare la parte di paesaggio che dovrebbe essere precipua cura dell’uomo. Ci sono i paesi, i villaggi, le città, di cui il lettore, grazie alle descrizioni, può quasi direttamente vedere stazioni, ville, terme, palazzi, monumenti come la fortezza di Sisteron. E a Sisteron una grande pianta di glicine, abbarbicata per tutta l’altezza di una bella casa borghese, in un episodio memorabile narrato da Magnan.
E’ necessario, ora, che io venga a specificare che la maggior parte dei romanzi di Magnan hanno come protagonista il commissario Laviolette, che qualcuno ha voluto definire il Maigret delle Basse Alpi (come più o meno si chiamava una volta quel dipartimento con capoluogo Digne), ma che, a mio avviso, differisce molto dal commissario parigino, non solo perché é uno scapolo che si concede qualche rara avventura sentimentale, bensì per il suo profondo radicamento nel territorio in cui é nato ed opera (e troviamo lì già suo nonno e suo padre entrambi graduati, il secondo di sicuro brigadiere, della Gendarmeria) e per un accentuato senso di tolleranza per le debolezze umane. Non poteva, forse, essere diversamente, poiché é stato partigiano su quelle montagne come il suo autore. Da un lato, tutto questo aiuta a capire la larga visione del protagonista a fronte di tante (anche se spesso pittoresche) miserie umane, dall’altro contribuisce ad inquadrare l’arco temporale (principalmente gli anni ’80) della sua azione, che lo vede ad un certo punto coinvolto in indagini, ancorché ormai pensionato.
Il riferimento alla Resistenza é importante, anche per il contributo sotto veste romanzesca a dissipare luci ed ombre umane di quell’eroico periodo, che non poteva essere esente da micidiali provocazioni del nemico e da tradimenti.
Con l’artificio, poi, di antefatti che risalgono nel tempo o dei racconti del nonno o della narrazione di vicende del padre vissute o viste da bambino, Laviolette porta talora il lettore anche oltre gli inizi del ‘900, con pagine in cui sembra proprio di respirare la storia, proprio perché, essendo storia minore, emergono personaggi, riferimenti, vicende, fatti, veri o verisimili, largamente misconosciuti, io credo anche in Francia: non per niente Magnan ha conseguito diverse attestazioni ministeriali transalpine per il suo meritorio impegno di divulgazione storica.
Non posso non delineare brevemente le figure femminili di Magnan. Il primo termine che mi viene in mente é sensualità, una sensualità sana, mi viene da aggiungere, anche nelle donne che delinquono. Altro aspetto é che, talvolta vittime, ci sono donne criminali e, ripeto, non tutte le donne sono delle vittime, questo forse alla luce di uno storico, non dichiarato matriarcato di quelle zone. E le donne sono in genere belle e formose, anche nella maturità!
“Il Casino Forcalquier” é un romanzo storico, a sè stante, per così dire, al pari de “La casa assassinata” e de “Il periplo del capodoglio”. Ricorrono in tutti le peculiarità di cui ho detto già largamente. E i primi due sono anche dei noir. Accenno solo ad alcune particolarità. Il primo, ambientato intorno al 1870, ha l’andamento di un grande romanzo d’avventura, con tanto di briganti e di tesori; de “La casa assassinata” va almeno detto che porta il lettore a non dimenticare, anche se inquadra marginalmente reduci e mutilati, la tragedia della Prima Guerra Mondiale; ne “Il periplo del capodoglio”, che ha anche qualche decisa venatura comica, l’unico che si svolge fuori contesto, lungo un fiume idealizzato che si può identificare con il Rodano, dopo aver avuto la soddisfazione di incontrare per qualche attimo significativo Stendhal in persona, si rimane estasiati da delle splendide figure di donne.
Lascio da ultimo “Guernica”, dove appare un Laviolette ancora giovane e in vacanza in Spagna, nella Spagna franchista, ma coinvolto in un episodio veritiero (mi sono documentato!) di feroce stampo medievale, si sarebbe detto una volta, che lo perseguiterà a lungo, anche in Italia. E’ un libretto agile, dove la penna del maestro rifulge veramente grande, ma per il quale ho voluto annunciare all’eventuale lettore un’atroce crudeltà ivi descritta, forse non a caso ambientata a Guernica, città martire immortalata da Picasso…
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